
Silver Economy: un nuovo scenario globale
Il mondo sta attraversando una trasformazione demografica profonda e senza precedenti, complici l’aumento della
longevità e il drastico calo delle nascite.
L’aspettativa di vita è in forte crescita: se nel 1950 era di 46,4 anni, si stima che possa raggiungere gli 81,7 anni entro
la fine del secolo. Alcuni paesi potranno addirittura superare di gran lunga tale valore, come la Cina che sfiorerà i 90
anni e il Giappone che arriverà a 94,4.
Parallelamente il tasso di fertilità è in continua discesa. Il numero di figli per donna, che nel 1995 era poco meno di 3,
scenderà sotto la soglia di 2,1 a partire dal 2040. Questo valore rappresenta il “tasso di sostituzione” minimo necessario
per garantire la stabilità nel tempo della popolazione. Paesi come Cina, Italia e Spagna stanno già registrando tassi
di natalità “ultra-bassi”, con meno di 1,4 figli per donna, un andamento che difficilmente cambierà nel breve termine.
Questo scenario porterà la popolazione globale a raggiungere il suo picco entro la fine del secolo, per poi iniziare a diminuire gradualmente. Un ulteriore effetto diretto sarà la ricomposizione nella struttura demografica, con una crescita significativa dell’incidenza della popolazione anziana. Tale fenomeno, che impatta profondamente la società e l’economia, ha dato vita al concetto di “Silver Economy”.
La de-crescita della popolazione
Secondo il World Population Prospects delle Nazioni Unite, la popolazione globale raggiungerà i 10,3 miliardi nel
2080, per poi iniziare a scendere e arrivare a 10,18 miliardi nel 2100. Il picco arriverà prima del previsto a causa di un
calo del tasso di fertilità più rapido di quanto inizialmente stimato in Cina e nell’Africa sub-sahariana.
La transizione demografica varia significativamente in velocità e intensità a seconda delle diverse aree geografiche.
Secondo le Nazioni Unite, 63 Paesi — che rappresentano il 28% della popolazione mondiale — sono già entrati nella
fase di declino della popolazione, registrando tassi di natalità inferiori a quello necessario a garantire il ricambio
generazionale. Si stima che nei prossimi 30 anni queste regioni subiranno un calo medio della popolazione del 14%.
Tra i casi più evidenti figurano l’Europa (esclusa la Francia), il Giappone e la Cina. Quest’ultima, particolarmente
colpita, perderebbe 204 milioni di abitanti entro il 2054 e 786 milioni entro la fine del secolo, dimezzando la propria
popolazione e tornando ai livelli del 1950.
L’aumento dell’aspettativa di vita contribuirà solo in minima parte a compensare il calo delle nascite, con effetti
trasversali su tutte le aree geografiche. L’immigrazione, invece, potrà attenuare il declino demografico solo in un
numero limitato di Paesi, tra cui Australia, Canada e Stati Uniti.
Gli anziani superano i giovani
Come anticipato, il calo delle nascite e l’aumento dell’aspettativa di vita non influenzano solo la numerosità della
popolazione, ma ne modificano radicalmente la struttura per età.
A livello globale, si prevede che a partire dalla metà degli anni 2030, il numero di ultraottantenni supererà quello dei bambini con meno di un anno. Entro la fine del 2070 gli over 65 — stimati in 2,2 miliardi — saranno più numerosi dei giovani sotto i 18 anni. Ciò è già avvenuto in alcune aree del mondo in cui la transizione demografica è in fase avanzata.
Mentre in passato l’invecchiamento demografico era un fenomeno che riguardava soprattutto i Paesi avanzati,
oggi coinvolge anche molte economie emergenti e in via di sviluppo. Come mostra il grafico, entro il 2035, paesi
come Germania, Italia, Francia, Giappone e Stati Uniti, ma anche India e Cina supereranno il cosiddetto “punto di
svolta demografico”, ovvero il momento in cui la quota di popolazione in età lavorativa smette di crescere e inizia a
diminuire. Entro il 2070, anche la maggior parte dei paesi a basso reddito vivrà questa stessa transizione.

Questo fenomeno sarà particolarmente evidente in Europa e in Asia. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, in
Europa la quota degli over-65, rimasta sotto il 20% tra il 1980 e il 2020, supererà il 30% entro il 2100. La tendenza
in Cina sarà ancora più marcata: la percentuale di ultra-65enni passerà dal 5-10% a quasi il 50% nello stesso arco di tempo. Anche l’Asia emergente seguirà un percorso simile, con una proiezione vicina al 40% entro il 2100.
L’Italia sta progressivamente passando dalla fase dell’invecchiamento a quella della vera e propria vecchiaia
della popolazione. L’Istat prevede che le persone di 65 anni e più rappresenteranno il 34.5% della popolazione già
nel 2050, superando la quota europea. Allo stesso tempo, gli ultra-85enni aumenteranno dal 3.8% del 2023 al 7.2%
nel 2050. Questo porterà a una modifica radicale nel rapporto tra popolazione in età lavorativa e non, che passerà da un rapporto di due a uno (come nel 2024) a un rapporto di uno ad uno nel 2050.
Sfide economiche: crescita più lenta e finanze pubbliche sotto pressione
L’invecchiamento della popolazione è associato a prospettive economiche meno rosee. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, tra il 2025 e il 2100 la crescita economica mondiale si ridurrà di ben due punti percentuali rispetto alla media del 2016-28, principalmente a causa dei cambiamenti demografici. I Paesi più colpiti saranno quelli con un’età media più alta, come il Giappone e l’Italia e, tra quelli emergenti, la Cina e l’India. Gli Stati Uniti, invece, si mostreranno più resilienti in quanto favoriti dalle dinamiche immigratorie che ne sostengono la forza lavoro.
Le prospettive di crescita più contenute sono riconducibili, in primo luogo, a fattori strutturali, come la carenza
di manodopera. In secondo luogo, ai cambiamenti nei comportamenti economici indotti dall’invecchiamento della
popolazione: l’aumento dell’aspettativa di vita e dell’età media riduce la propensione a investire, innovare e
consumare, mentre fa crescere l’inclinazione al risparmio. Quest’ultima è motivata dalla necessità di sostenere un
periodo di pensionamento sempre più lungo. Solo nelle fasi più avanzate della transizione demografica le famiglie
iniziano ad attingere ai risparmi accumulati, incrementando gradualmente la spesa.
Inoltre, il rapporto crescente tra pensionati e lavoratori attivi esercita una pressione significativa sui sistemi
pensionistici e sulla spesa sanitaria. Entrambi questi fattori contribuiscono a deteriorare i conti pubblici e spingono
verso lo sviluppo di forme di previdenza complementare, sempre più necessarie per garantire la sostenibilità del
sistema nel lungo periodo.
Lavoro e longevità
La carenza di manodopera influenzerà anche i flussi di capitali. I Paesi con dinamiche demografiche favorevoli,
in prevalenza Paesi emergenti, diventeranno i nuovi poli produttivi, attraendo investimenti dalle economie che
andranno incontro ad un calo della forza lavoro.
Tra queste figurano l’Italia e l’Europa. Nello specifico, si prevede che l’Italia subirà una riduzione della popolazione
attiva pari all’8,3%, mentre l’Europa perderà 25 milioni di lavoratori entro il 2070, nonostante le riforme dei requisiti
pensionistici contribuiscano a mantenere elevato il tasso di partecipazione. Questa stima, elaborata dall’Ageing
Working Group (AWG), è strettamente legata al calo demografico e all’invecchiamento: la popolazione europea
passerà dai 449,1 milioni del 2022 a 431,9 milioni nel 2070, mentre l’aspettativa di vita aumenterà da 78,4 a 86,1 anni
per gli uomini e da 84,0 a 90,4 anni per le donne nello stesso periodo.
Tuttavia, c’è un elemento positivo da considerare: l’allungamento della vita si accompagna ad un miglioramento
delle condizioni di salute generali. Questo fenomeno può contribuire a mitigare gli effetti negativi delle dinamiche demografiche sul mercato del lavoro.
Uno studio del Fondo Monetario Internazionale, condotto tra il 2000 e il 2022 su individui over 50 in 41 Paesi
sia avanzati che emergenti, ha rilevato un progressivo miglioramento delle condizioni di salute nelle generazioni
successive, a parità di fascia di età e in modo trasversale nelle diverse aree geografiche. I progressi più significativi
si sono registrati nell’ambito cognitivo: nel 2022, una persona di 70 anni presentava in media le stesse capacità
cognitive di una persona di 53 anni nel 2000.
La ricerca ha inoltre associato questo miglioramento della salute a effetti positivi sul mercato del lavoro, come un pensionamento più tardivo, salari più alti, maggiore partecipazione (+30% in un decennio) e un incremento delle ore
e delle settimane lavorate. L’analisi sottolinea, tuttavia, che altri fattori — come l’obsolescenza delle competenze, gli
incentivi pensionistici e la discriminazione legata all’età — possono comunque limitare il pieno coinvolgimento dei
lavoratori più anziani.
Le leve per il futuro
Per mitigare gli effetti del cambiamento demografico, le politiche economiche dovranno puntare sul rafforzamento
della produttività attraverso l’uso di nuove tecnologie, tra cui automazione e robotica. I robot umanoidi, ad esempio,
potranno offrire un valido supporto nelle strutture sanitarie, sempre più sotto pressione a causa dell’aumento
della popolazione anziana. Questi dispositivi saranno principalmente impiegati per automatizzare mansioni
ripetitive e a basso valore aggiunto, come il trasporto di campioni di laboratorio, la disinfezione delle attrezzature o
la pulizia degli ambienti. Si stima che, grazie al loro impiego, gli infermieri potranno risparmiare fino al 40% del tempo
lavorativo giornaliero.
Negli Stati Uniti, circa 30 ospedali stanno già sperimentando questa tecnologia. Il robot Moxi, sviluppato da Diligent
Robotics, è un esempio concreto: un umanoide alto 1,20 metri, dotato di ruote, un braccio meccanico e occhi a LED a
forma di cuore. Moxi contribuisce a colmare la grave carenza di personale sanitario, occupandosi di compiti logistici
come la raccolta di forniture da magazzini e farmacie. Questo permette al personale infermieristico di dedicarsi con
maggiore continuità alla cura dei pazienti.
Sarà altrettanto importante aumentare la disponibilità di manodopera, gestendo con visione strategica i flussi
migratori, favorendo l’integrazione nel mercato del lavoro degli inattivi (ovvero di coloro che non sono né occupati
né in cerca di occupazione) e fornendo formazione continua per sostenere l’occupazione delle persone anziane che
desiderano continuare a lavorare.
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